Conosci i Beach House? Sono un gruppo americano che mi fa impazzire.
La loro musica suona lanosa e fumosa come solo lo zucchero filato può essere: bordi frastagliati e indefiniti, una nube rosa di melodie sognanti. Tutto è ineffabile e rimbalza in un eterno gioco di echi che si fa fatica a descrivere a parole. In un loro pezzo troviamo un verso che mi ha sempre colpito: help me to name it, ovvero: aiutami a dare un nome a questa cosa.
Help me to name it
Proprio questo verso sortisce un effetto magico: suona come una domanda diretta all’ascoltatore, una richiesta esplicita di delineare le forme e i confini della musica distinguendo ciò che è da ciò che non è. Questo compito non è dissimile da ciò che fa il copywriter durante il naming, ovvero lo studio, l’individuazione e la definizione di nomi di prodotti, servizi o aziende. Help me to name it diventa quindi l’invocazione del cliente al creativo: aiutami a trovare un nome a questa cosa.
Dare un nome alle cose è molto di più che trovare semplicemente il nome giusto: l’operazione di naming è ciò che nel teatro greco veniva chiamata agnizione, ovvero un riconoscimento che determina una svolta alla narrazione e la risoluzione dell’intreccio.
Dare un nome alle cose significa farle esistere, restituire loro un volto e quindi gettare una luce nuova sul loro essere. E soprattutto: se quello che definiamo con un nome è una convenzione (ricordi Shakespeare? Che cos’è un nome? Quella che chiamiamo “rosa” anche con un altro nome avrebbe il suo profumo), quello che compiamo nel naming è un’invenzione, cioè portare a galla una nuova verità sul prodotto che determiniamo, ribadendo la sua identità.
È come la cerimonia di investitura di un cavaliere: il naming lo consegna alla storia e gli dà un destino. “Per i poteri conferitemi dalla corona d’Inghilterra ti nomino eccetera eccetera” – non male, che ne pensi?
La missione del copywriter
Diceva il sommo Galileo: i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi; perché prima furono le cose, e poi i nomi. Questa frase sembra spiegare alla perfezione l’epica missione del copywriter alle prese con il naming. Il nome scelto è sì un’invenzione di un’identità ma è anche allo stesso tempo un modellamento linguistico sulla base di connotati forniti dal cliente: cosa è il prodotto, che segni particolari ha, il suo uso o il contesto, ovvero tutto ciò che costituisce la sua essenza.
Il nome, in questo caso, deve sapersi adattare e adagiare come su un morbido cuscino – e, cosa ancor più importante, deve stare comodo, come se fosse a casa sua.
Una considerazione finale: il naming non è un’operazione che agisce in un’unica direzione.
Molto spesso trovare un nome alle cose (o ancora meglio: chiamarle col loro nome) ha un effetto anche su chi, appunto, il nome lo trova. Nominare equivale a dare un ordine, controllare le cose, addomesticarle. È qualcosa che ci conforta: lo sconosciuto diviene familiare, ciò che è sfuggente si trasforma in cristallino.
Perché dare un nome sbagliato, sosteneva Camus, contribuisce all’infelicità del mondo.
Trovare il nome giusto, forse, non fa altro che scaldare il nostro cuore.
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